Un excursus sulla necessità della prevenzione del maltrattamento e sulla educazione alla salute di bambini e ragazzi. Quali possono essere i fattori di protezione più efficaci? Quali le strategie legate alla resilienza ed alla solidarietà sociale?

 

Dal curare al prendersi cura: non un costo ma un investimento

La Costituzione Italiana (art. 3 e 30) e la Convenzione per i Diritti dell’Infanzia (ratificata in Italia con la legge 176 del 1991) chiedono allo Stato di garantire il pieno sviluppo psicofisico dei bambini, e di assicurare un supporto appropriato alle famiglie per consentire adeguate funzioni genitoriali. L’Europa marca questa posizione negli Obiettivi dello sviluppo sostenibile chiedendo di combattere lo svantaggio socio-culturale nei primi anni di vita come misura fondamentale per ridurre la povertà e l’esclusione sociale[1]. Autorevoli agenzie di advocacy svolgono costante azione di pressione e monitoraggio affinché tali diritti si sostanzino realmente in investimenti economici ed in servizi. Cito tra i più recenti il rapporto redatto nel 2020 dalle reti #educAzioni e Alleanza per l’infanzia[2], il quale sottolinea che gli investimenti nei servizi per l’infanzia e per il supporto alle competenze delle famiglie sono strategici sia dal punto di vista sociale che economico, in quanto hanno ricadute a vari livelli: il benessere e le competenze dei bambini; il benessere e le condizioni delle loro famiglie; la coesione sociale e lo sviluppo economico delle comunità e dell’intera società. L’investimento in politiche per l’infanzia sarebbe una scelta economicamente vantaggiosa a vari livelli, come si va dicendo in Italia fin dalla ricerca 2013 dell’Università Bocconi[3]: tale studio indaga il rapporto tra i maltrattamenti intrafamiliari e le spese per curarne gli esiti, e denuncia che i maltrattamenti ai bambini costano allo Stato 13 miliardi di euro ogni anno pari allo 0,84% del PIL. In pratica avviene che il maltrattamento durante l’infanzia procuri, oltre ai gravi danni di salute mentale e fisica per il minore, anche una spesa rilevante per la società. Tra i costi diretti ci sono quelli per la cura e l’assistenza dei bambini vittime (cure sanitarie, socio-assistenziali, spese per strutture residenziali). I costi indiretti riguardano le conseguenze sulla collettività: un bambino maltrattato crescendo spesso diventa un adolescente e un adulto problematico, con possibili ripercussioni in termini di devianza e di perdita di produttività nel lavoro. La stessa indagine riporta quanto affermato dal premio Nobel dell’economia Heckman ovvero che un dollaro investito nella prima infanzia su bambini a rischio genera un risparmio futuro di sette dollari. Qualora non bastassero le ragioni economiche a destare gli animi, una mole di saperi multidisciplinari (dalle neuroscienze alla psicologia e alla pedagogia, dalla sociologia all’economia) ci verrebbe incontro fornendo evidenze scientifiche sulla necessità della massima protezione dell’infanzia e del rafforzamento delle competenze genitoriali come strategia di prevenzione dei danni alla persona.

 

Prevenzione del mal-trattamento e educazione alla salute

Il tema della prevenzione dei danni sostanzia il concetto di salute definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: «uno stato di completo benessere fisico, sociale e mentale, e non soltanto l’assenza di malattia o di infermità»[4]. Partendo dall’assunto che la salute è un diritto umano fondamentale, la Carta di Ottawa (1986) sottolinea i complessi legami esistenti tra le condizioni sociali ed economiche, l’ambiente fisico, gli stili di vita individuali e la salute. Questi legami forniscono la chiave per una comprensione olistica della salute e per la sua promozione che va intesa come un processo sociale e politico globale che comprende sia azioni volte a rafforzare le abilità e le capacità dei singoli individui, che anche azioni volte a modificare le condizioni sociali, ambientali ed economiche, in modo da attenuare il loro impatto sulla salute del singolo e della collettività. Sarebbe dunque molto sensato spostare l’asse delle politiche sanitarie sulla prevenzione primaria, prima ancora che sulla prevenzione secondaria e terziaria ovvero sulla cura, tramite interventi per combattere le cause e i fattori predisponenti del mal-trattamento al fine di cambiare abitudini e comportamenti scorretti. Nel caso della tutela dell’infanzia ciò si sostanzierebbe in progetti di educazione alle buone cure ed in campagne di sensibilizzazione della popolazione e delle famiglie. Il ben-essere infantile coincide dunque con il buon livello di salute che, essendo appunto qualcosa di più complesso che non la semplice assenza di patologie, è un impegno che deve abbracciare un’ottica ecologica e occuparsi, oltre che dei fattori biologici, anche dei vari sistemi in cui il bambino si trova a crescere: il microsistema (azione diretta su convinzioni, atteggiamenti e comportamenti nei gruppi che hanno un contatto diretto con il bambino, famiglia e scuola in primis), il mesosistema (azione sulla relazione esistente tra i membri del microsistema), l’esosistema (i sistemi sociali in cui sono inseriti i genitori, che hanno sempre un’influenza sulle loro scelte), il macrosistema (gli elementi della cultura in cui la persona è immersa e che influenzano i sistemi precedenti) (Bronfenbrenner 1979). La Carta di Ottawa individua tre strategie interconnesse per la promozione della salute: advocacy (al fine di creare le condizioni essenziali per la salute precedentemente indicate), enabling (per abilitare le persone a raggiungere il loro massimo potenziale di salute), mediating (per mediare tra i diversi interessi esistenti nella società nel perseguire obiettivi di salute), ed individua cinque aree d’azione prioritarie per la promozione della salute: costruire una politica pubblica per la salute; creare ambienti favorevoli alla salute; riorientare i servizi sanitari; sviluppare le abilità personali; rafforzare l’azione della comunità. Le prime tre aree sono evidentemente di competenza istituzionale ed attengono alle scelte di politica sanitaria nazionale e regionali. Partendo dall’assunto che accanto alla responsabilità istituzionale vi sia una larga area di responsabilità individuale singola e collettiva mi occuperò qui delle altre due aree: lo sviluppo delle abilità personali ed il rafforzamento dell’azione della comunità. In particolare mi concentrerò sul microsistema ovvero su come individui (genitori ed educatori in primis) e loro aggregati (famiglie comunità e reti) possono alfabetizzarsi alla salute infantile tramite lo sviluppo di life-skills (abilità psico-sociali) per implementare i fattori di protezione per l’infanzia; ne parlerò utilizzando il concetto di resilienza.

 

Le life-skills come fattori di protezione

Ogni famiglia o gruppo sociale ha un proprio stile di vita ovvero un modo di vivere basato su modelli di comportamento che sono determinati dall’incrocio tra caratteristiche personali dell’individuo, interazioni sociali e condizioni di vita socio-economiche e ambientali. Nello stile di vita si calano i modelli di comportamento verso l’infanzia i quali, sebbene in larga misura influenzati appunto da fattori sovrapersonali, possono essere formati nell’adulto in tutto il corso della vita. Occorre una vera e propria alfabetizzazione al buon trattamento in grado di promuovere modificare gli stili di vita individuali e favorire condizioni di vita adeguate al bambino. Tale educazione consiste nella promozione nei care-giver di abilità psicosociali (in inglese life skills) cioè di capacità di adottare consapevolmente e responsabilmente comportamenti positivi verso l’infanzia. L’atteggiamento di protezione passa dunque attraverso la crescita dell’adulto, e le abilità e competenze da costruire in esso supportano gli atteggiamenti di una sana genitorialità (fiducia in sé stessi, responsività, problem-solving, pensiero creativo e critico, riflessività e regolazione, consapevolezza di sé, empatia, abilità comunicative e relazionali, capacità di gestire le proprie emozioni e lo stress); in questa direzione vanno anche le Linee di indirizzo nazionali per la promozione della genitorialità positiva[5]. Sebbene queste skills non siano sufficienti da sole a garantire la salute del bambino, esse sono uno dei fattori di protezione basilari il cui incremento attiene alla responsabilità diffusa, e non delegabile, di genitori, agenzie educative, scuole, operatori. L’educazione alle life-skills è raccomandata dall’OMS anche come programma per promuovere resilienza nei contesti scolastici[6].

 

La resilienza: un costrutto multidimensionale e dinamico

La salute del bambino è un prodotto multifattoriale e gli attuali studi sulla capacità del bambino di superare gli eventi avversi e di trovare forme di adattamento danno ragione ad un concetto multidimensionale di resilienza[7]. Nei primi studi (anni ’80/’90) si credeva che fossero sufficienti adeguati fattori di protezione (FdP) per contrastare i fattori di rischio (FdR): se una relazione genitore-figlio inadeguata rappresentava un indiscutibile FdR, si supponeva che una buona relazione costituisse invece un FdP. Oggi, supportati da evidenze cliniche, si sa che la semplice analisi del bilanciamento tra FdP e FdR non è sufficiente da solo per spiegare perché alcuni bambini crollano sotto il peso degli stress mentre altri sembrano attraversarli incolumi. Gli studi più recenti hanno dimostrato che la resilienza dipende dalla interazione di diversi fattori: predisposizioni genetiche (temperamento, intelligenza, diversa suscettibilità agli eventi ambientali), qualità personali (abilità personali e autostima), fattori familiari e ambientali (qualità dei legami, aspettative, apprendimento, tipologia e quantità degli eventi ambientali stressanti, ecc.). Si è inoltre constatato che c’è un dinamismo temporale e contestuale: i bambini sviluppano livelli diversi di resilienza in diverse fasi della vita, e possono essere più resilienti rispetto ad un evento che ad un altro; insomma non c’è staticità, la capacità resiliente non è un tratto permanente. La tendenza attuale nel campo degli studi sulla resilienza, che non smentisce le due impostazioni precedenti bensì le integra, è quella di studiare i processi che la promuovono. Dato come base un assunto classico della psicologia evolutiva ovvero il legame di attaccamento (il cui gradiente di sicurezza è considerato ancora il più consistente predittore di resilienza), constatato che le relazioni affettive e di sostegno contribuiscono allo sviluppo della resilienza, e appurato che i bambini e adolescenti più resilienti sono coloro che credono in sé stessi e nutrono ottimismo e speranza, oggi ci sono sufficienti riferimenti validati sui processi protettivi che promuovono resilienza, e sono stati elaborati programmi i quali possono essere distinti per strategie[8]. Le strategie centrate sul rischio (di tipo socio-assistenziale) rimuovono o riducono l’esposizione del bambino a rischi e traumi, proponendo interventi quali il supporto ai genitori fragili, i servizi territoriali per l’età evolutiva, gli interventi sociali ed economici a sostegno delle famiglie, la cura delle dipendenze. Le strategie di centrate sul benessere (di tipo psicologico) propongono il miglioramento del benessere psicologico come fattore protettivo contro lo stress, e puntano quindi al potenziamento delle aree mentali meno sviluppate. Le strategie centrate sull’assetto (di tipo educativo) puntano a stimolare le risorse del bambino e le sue competenze, puntando ad incentivare servizi di tutoraggio educativo, centri ricreativi e per la socializzazione, programmi per lo sviluppo psico-sociale. Infine le strategie centrate sul processo consistono in programmi integrati in aree tese a migliorare la qualità di vita del bambino quali ad esempio le relazioni di attaccamento ed il sistema motivazionale del bambino. Un atteggiamento di base comune a queste strategie è l’approccio positivo alla condizione di vita ovvero lo spostamento dello sguardo dai deficit alle risorse.

 

L’effetto positivo della solidarietà sociale

La persona è predisposta alle relazioni, la mente è relazionale: «le connessioni umane plasmano le connessioni neurali, ed entrambe contribuiscono alla sviluppo della mente» (Siegel 2013). Siamo coinvolti, nel corso della vita, grazie alle continue esperienze di relazione, in un processo ininterrotto durante il quale il cervello continua a modificare le sue connessioni strutturali grazie alle esperienze relazionali (Doige, 2007). Stare bene con gli altri è un bisogno evolutivo irrinunciabile come quello di nutrirsi, ed il supporto alle reti sociali è un ambito di promozione della salute poiché la resilienza trae nutrimento dalla rete di relazioni. La persona resiliente sa prendere e dare: utilizza il supporto sociale in cui vive, ma lo sa anche restituire alla comunità producendo azioni comunitarie; una sua caratteristica è avere la capacità di chiedere aiuto e di utilizzare le risorse della famiglia allargata, degli amici e dei servizi disponibili. In particolare dalle ricerche emerge che la presenza di relazioni di sostegno con persone esterne alla famiglia è di particolare efficacia nella produzione di resistenza allo stress di origine poiché fornisce all’individuo modelli alternativi di fronteggiamento delle avversità. Il supporto sociale (che può comprendere il sostegno emotivo, la condivisione di informazioni, la fornitura di risorse materiali e di servizi) è ampiamente riconosciuto come un importante determinante di salute e come un elemento essenziale del capitale sociale. Ecco allora che la comunità diventa quel luogo politico in cui pubblico e privato si incontrano per compenetrarsi e sostenersi vicendevolmente: ambiti come quello scolastico, sportivo, parrocchiale, associativo sono luoghi in cui costruire relazioni efficaci: un importantissimo fattore di resilienza sia diretto (capacità di prendersi cura dei bambini) che indiretto (attenzione a prendersi cura dei genitori). In conclusione, perseguendo una logica di complessità e di sussidiarietà orizzontale, prendersi cura dell’infanzia è un compito non solo istituzionale o tecnico-professionale; esso riguarda anche il tessuto sociale nel suo insieme il quale è chiamato, per recuperare in umanità, ad impegnarsi nella costruzione del Noi[9] organizzando luoghi caldi e strategie di prossimità in cui si possano sperimentare relazioni positive onde stimolare il potenziale generativo delle famiglie e delle persone.

 

(Articolo pubblicato su: AA.VV., Prendersi cura, Città Nuova, Roma, 2021)

 

[1] Commissione Europea, “Investire nei bambini per rompere il circolo vizioso dello svantaggio” (2013)

[2] #educAzioni e Alleanza per l’infanzia “Investire nell’infanzia: prendersi cura del futuro a partire dal presente” (2020)

[3] CISMAI, Fondazione Terre des hommes, Università L. Bocconi, Studio nazionale “Tagliare sui bambini è davvero un risparmio?” (2013)

[4] World Health Organization, Ottawa Charter for Health Promotion (1986)

[5] Ministero del lavoro e delle politiche sociali, L’intervento con bambini e famiglie in situazione di vulnerabilità (2017)

[6] WHO, Skills for health: an important entry point for health promoting child-friendly schools (2004)

[7] Camuffo, M., Costantino, M.A., Promozione della resilienza e strategie di intervento, in: Giornale di neuropsichiatria dell’età evolutiva (2010)

[8] Winslow EB, Sandler IN, Wolchik SA, Building resilience in all children, in: Goldstein S., Brooks R.B., Handbook of resilience in children, New York, Springer (2005)

[9] Iavarone, M., Iorio, G., Webuilding: il metodo della costruzione del Noi per la crescita della persona e dei gruppi attraverso il gioco, in: Neopsiche n. 28 (2020)

 

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